Manchevole è una parola un po’ desueta ma precisa: evoca immagini come un tavolo con una gamba più corta delle altre, traballante, oppure una sequenza numerica che salta un elemento, o un’opera d’arte inconclusa. Manchevole è qualcosa che non è come ci si aspetta: ha un difetto, è fuori norma, sembra mancare (appunto) l’obiettivo.
Di personaggi che rientrano in questa descrizione, nella Scrittura, se ne incontrano tantissimi. I primi che vengono in mente sono quelli con una menomazione fisica o sensoriale: sordi, ciechi, muti, sterili e amputati… Da un capo all’altro della Bibbia zoppicano sia Giacobbe sia il mendicante incontrato da Pietro e Giovanni alla porta Bella, Mosè balbetta, un tale Enea è paralizzato, e un’anonima «donna curva» del Vangelo è addirittura ricordata con il nome della sua disabilità. Ma l’elenco si potrebbe allungare finché si vuole, ben oltre le pagine di questo libro e con nomi più o meno noti: tra i ciechi ci sarebbero Isacco, Tobi, Bartimeo; è zoppo Merib-Baal figlio di Giònata; nella schiera delle sterili c’è Elisabetta, ma anche Sara, la donna di Sunem e Anna di Samuele. Di tutti e tutte loro varrebbe la pena che si raccontasse nuovamente la storia, perché ogni rilettura e narrazione sono sempre parziali, manchevoli – appunto – da alcuni lati e rivelatrici da altri.
Ma non sono solo le imperfezioni del corpo a rendere manchevoli gli uomini e le donne di ogni tempo. È per questo che la selezione dei volti biblici in queste pagine non include soltanto personaggi con una disabilità fisica o sensoriale. A chiunque, a fasi alterne nella vita, manca qualcosa. La manchevolezza è in fondo una condizione umana, che ha a che fare con i limiti e le possibilità delle nostre singolari esperienze. Ad Acsa manca una dote, a Pietro il coraggio, e a tutti prima o poi manca il tempo, come al capo di sinagoga Giàiro.
Ci manca ciò che ci sfugge, oppure ciò che abbiamo perduto. Perdiamo affetti, popoli, poteri, privilegi… o ci rendiamo conto di non averli avuti mai. A volte succede anche con i luoghi; la poetessa Elizabeth Bishop scriveva: «Ho perso due città, proprio graziose. E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente». La sua voce potrebbe essere quella della regina Vasti o del profeta Geremia.
Giudichiamo manchevoli le persone che derogano al proprio ruolo: Gamaliele è un giudice che non vuole giudicare, la profetessa Culda porta solo cattive notizie. Ma, volendo, si può essere manchevoli anche perché non si deroga a sé stessi: il cammello della parabola, finché resta cammello, non riesce proprio a passare dalla cruna di un ago.
Nella Bibbia, e non raramente anche nella vita, a rendere possibili certe storie è lo scarto tra l’aspettativa e la realtà. L’incompiutezza fa procedere la trama. La zoppìa di alcuni corpi genera risvolti creativi: furbizie, incontri, guarigioni, compensazioni. E così per ogni manchevolezza, che di per sé invoca aiuto e fantasia, affidamento e speranza.
Quando si presta attenzione alle mancanze dei vari personaggi biblici (vere o presunte, definitive o provvisorie), ci si accorge che esse sono spazi di evoluzione delle vicende. Spesso, il senso teologico delle loro storie sta proprio lì, in quello spazio, senza che esso edulcori la fatica, la solitudine e la frustrazione che talvolta le accompagnano.
Sono una cinquantina le donne e gli uomini variamente manchevoli che questo libro raccoglie, ripercorrendo la Scrittura. [...] Non è importante che si capisca indubitabilmente che cosa manca a ogni figura biblica nelle intenzioni di chi l’ha scelta e l’ha inserita in questo libro. Anzi, meglio sarebbe se questa lettura fosse un modo per abituare lo sguardo alle altre possibilità, alle incompiutezze di ogni narrazione, inclusa la presente. Per esercitarsi a intrecciare le storie della Scrittura notando dove sono in grado di accoglierne altre, dove c’è una svolta possibile, e non dove sono
finite in loro stesse. Ogni personaggio ha qualche lacuna, palese o nascosta, se non altro perché è un essere umano: uno scenario mancato, una speranza disattesa, una potenzialità inespressa, una comunità desiderata. La narrazione resta aperta, e chi legge potrebbe scorgere tra le righe manchevolezze, non preventivate, di un personaggio principale o secondario, oppure di sé stesso in confronto a tutti loro.
È l’incompletezza a far accadere le cose; è quando sono incompiute che le storie possono proseguire. Perché in verità sono le storie a essere manchevoli, non le persone. E lo saranno fino al regno dei cieli, in quanto tutta la storia è incompiuta. Così si rivela Dio: nelle vicende di un popolo che cammina nel deserto e che attende il Messia; e di una comunità che lo veglia crocifisso e aspetta che torni di nuovo, dopo averlo visto ascendere al cielo. C’è uno
spazio di mancanza e desiderio in cui tendere a un domani, ed è sempre un’incompiutezza che ci consente di procedere.