Far parlare la passione del Signore

Domenica delle Palme - Anno B - 2015

La processione che precede in forme più o meno solenni l'ascolto della Passione del Signore con lo sventolio festoso dei rami d'ulivo, è un momento gioioso. Apparentemente, però. In realtà, essa ci obbliga a una riflessione molto seria e impegnativa: la verifica della qualità della nostra fede.

Essa, infatti, può essere, magari inconsapevolmente, come quella delle folle, che – come è messo in particolare evidenza proprio dall'evangelista Marco – dopo aver accolto con grandissimo entusiasmo e meraviglia Gesù all'inizio della sua vita pubblica, tanto da rischiare di schiacciarlo e da non dargli più nemmeno il tempo di mangiare, sulla scia degli scribi, dei farisei e dei capi del popolo, si trasformò in diffidenza, in ostilità crescente, in rifiuto totale. Liturgicamente la Settimana Santa ci invita a chiarire a noi stessi se il nostro essere cristiani si esalta nella domenica, ma si dilegua al venerdì.

In questa verifica ci guida l'ascolto attento della Passione del Signore. Che - attenzione! – non è una cronaca e non va ascoltata come il racconto di fatti che già conosciamo, magari appesantito dai nostri commenti (per carità, evitiamo di rovinarlo con le nostre prediche!). E' una catechesi (come si dice oggi), perciò va accolta come strumento per meditare se la nostra fede è "da folla", cioè di tipo sentimentale o al massimo intellettuale, oppure "da discepoli", disposti e decisi a camminano dietro a lui e come lui.

La Passione secondo Marco si presta particolarmente a questo scopo. In essa l'evangelista mette in risalto in modo drammatico la solitudine e il coraggio di Gesù. Da quando Giuda si reca dai sommi sacerdoti per consegnarlo loro, egli sperimenta e affronta un abbandono dopo l'altro: gli apostoli si addormentano e poi scappano; il sinedrio lo condanna vergognosamente senza appello; Pietro lo rinnega; la folla gli preferisce un assassino; Pilato lo consegna vigliaccamente in mano al sinedrio; e sulla croce la solitudine suprema: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".

Però, nel momento più drammatico della solitudine e dell'abbandono, per bocca del centurione romano, dal quale nessuno se lo sarebbe aspettata, viene rivelata la vera identità del Figlio dell'Uomo: "Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!".

Gli spiriti immondi avevano voluto svelarlo fin dall'inizio della sua vita pubblica, ma Gesù lo aveva loro sempre severamente proibito. I miracolati avrebbero voluto gridarlo a tutti, ma Gesù aveva sempre cercato di obbligarli al silenzio. Allora, perché il "segreto messianico" viene manifestato da un pagano? Perché il Figlio di Dio bisognava scoprirlo nel momento della sua testimonianza di obbedienza totale al Padre. E' adesso, infatti, che fatto "obbediente fino alla morte e a una morte di croce", Dio lo esalta e gli dona il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel suo nome ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra,e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

E' qui, perciò, che anche noi dobbiamo verificare se la nostra fede è come quella della folla, decaduta a religione adattata alle esigenze umane, come quella degli scribi e dei farisei, oppure è sequela, è discepolato, è camminare con lui e come lui, in grado di resistere anche alla solitudine, all'abbandono, fino alla "passione" che la costruzione e la testimonianza del bene comportano.
Lasciamo parlare la passione del Signore. Non ci parliamo sopra e nemmeno piangiamoci sopra. Gesù non ci chiede la commozione delle "donne di Gerusalemme", ma la capacità di seguirlo.
Stiamo attenti a non voler passare dalla gioia delle Palme a quella di Pasqua, scavalcando la lavanda dei piedi del Giovedì Santo, che prefigura e anticipa la croce, e la croce del venerdì.

 


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