In amorosa fedeltà

Il libro di Antonietta Potente non è un testo esegetico, ma nasce dall’esperienza, dalla vita vissuta dell’autrice. Nelle sue parole, risuonano le voci di tante e tanti che l’hanno preceduta nell’attenzione al Mistero e nella ricerca delle tracce della Divina Presenza non solo nelle Scritture, ma nella vita stessa. Il suo messaggio è un invito a stare in piedi, a mettersi in cammino e a innalzare inni di gioia, anche quando la vita sembra chiudersi in un’angoscia che toglie il respiro.

Il libro di Antonietta Potente, In amorosa fedeltà. Leggere e trasmettere le Scritture, non è un testo esegetico, ma nasce dall’esperienza, dalla vita vissuta dell’autrice. Nelle sue parole, risuonano le voci di tante e tanti che l’hanno preceduta nell’attenzione al Mistero e nella ricerca delle tracce della Divina Presenza non solo nelle Scritture, ma nella vita stessa, in ogni sua forma: negli esseri umani, negli animali, nelle piante, nelle stelle, nell’acqua, nel vento, in tutto il cosmo. Uno dei meriti di questo libro è di rendere le Scritture di nuovo vive, sottraendole all’interpretazione canonica e rendendole capaci di parlare al nostro presente, a un tempo che ha estremamente bisogno di essere salvato dalla superficialità, dall’insensatezza e dall’arroganza del potere, e di aprirsi all’ascolto di un sapere esperienziale che serve per vivere, per rinnovare e rigenerare l’esistenza.

Fra i molti fili che compongono la trama di questo libro, ne scelgo solo uno, quello che più mi ha toccata come donna da sempre impegnata a favore della libertà femminile. Parto dall’immagine del tappeto, in cui il disegno del destino, come dice Cristina Campo, si rivela solo dal rovescio: è un invito a iniziare da ciò che le Scritture non dicono esplicitamente, un’esortazione a cogliere il loro senso profondo, che la lettura ufficiale ignora o misconosce. Fra le cose cancellate dall’interpretazione canonica, c’è molto che riguarda le donne e il femminile: la tradizione ebraicocristiana ha saltato la relazione con la madre per passare subito a quella con Dio padre. Al contrario, Antonietta propone di ritornare all’amore del principio, di rimettere al centro il legame materno, che garantisce una relazione profonda con la vita e offre così la possibilità di rinascere e di trasformarsi. Riannodare il filo dell’antico legame con la madre significa onorare non il «Dio degli eserciti», ma una Deità che cura e instaura un rapporto materno con ogni creatura, affinché quest’ultima possa generare a sua volta altre relazioni creative con la vita.

Su questo stesso filo, ci colloca la vicenda di Noemi e Rut: solo delle donne potevano uscire dal bisogno, più maschile che femminile, di tracciare confini netti e invalicabili, per scoprire la Divina Presenza nella quotidianità della vita, per scorgerne le tracce nei gesti belli e buoni di molti e molte, per assaporare nella quiete «la prassi mistica della gioia». Il capitolo su Rut e Noemi è molto sapiente, orchestrato com’è a partire dalla radice ebraica di ogni nome e persino di ogni singola lettera, in sintonia con la mistica ebraica cabalistica. La radice ebraica ritorna nel compito, assegnato a ogni creatura, di avere cura del mondo, di perfezionarlo (Tiqqun ‘Olam in ebraico): una femmina d’uccello che cova la sua prole nel suo nido e poi la nutre contribuisce a portare a maggiore pienezza, con gioia, l’opera della creazione.

Il femminile ritorna esplicitamente nel capitolo dedicato alla casa e all’ospitalità: la casa, di cui le donne si prendono cura, non è intesa come luogo chiuso, ma come spazio di relazioni, e come apertura al Mistero e al desiderio infinito. Creare una casa dove il Divino possa abitare è opera di Sapienza, opera femminile. La Sapienza presiede a ogni nascita e trasformazione: il suo sapere non è libresco né erudito, ma serve per vivere. All’ospitalità amorosamente offerta a Gesù si ricollegano le figure evangeliche di Marta e Maria: non c’è alcun primato della contemplativa Maria rispetto all’attiva Marta, ma l’ascolto attento dell’ospite e la pratica della cura stanno insieme, come accade nella vita di molte donne.

Antonietta dedica poi una grande attenzione alla figura della regina di Saba, la quale risponde, lei che è straniera, alle dure parole e alle minacce di Salomone con doni preziosi, munifici e sovrabbondanti: entrambi, sia Salomone sia la regina di Saba, amano la Sapienza, che in lei si manifesta come graziosa abbondanza, simile alla generosità della Deità Eterna, che dona senza misura.
Inoltre, l’autrice ricorda il coraggio e la fede nell’impossibile di Maria di Nazareth, e il “suo” Vangelo, forse da lei stessa narrato o scritto, rammenta l’audacia dell’emorroissa, che toccò di nascosto il mantello di Gesù e che per la sua fede fu guarita, e rievoca il gesto della donna che a Betania versò un unguento prezioso sul capo di Gesù, prima della sua morte, per onorarlo in vista della sepoltura: al moralismo dei discepoli, si contrappongono la generosità del suo gesto e la sua intuizione di ciò che di lì a poco Egli avrebbe dovuto soffrire.

Vorrei infine sottolineare come lo svelamento del volto materno della Deità e l’evocazione delle figure femminili che popolano le Scritture non siano messaggi destinati solo alle donne: Antonietta si rivolge a tutti, donne e uomini, invitandoli a stare in piedi, a mettersi in cammino e a innalzare inni di gioia, anche quando la vita sembra chiudersi in un’angoscia che toglie il respiro.

Leggi un estratto del libro


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