Gli interventi casuali e sporadici lasciano le ferite aperte.
In questa domenica che risuona ancora delle feste dei santi e dei defunti, il Vangelo ci ricorda che per ritrovarsi nella «moltitudine immensa» del cielo e per camminare verso di essa, c’è una sola strada: amare il Signore Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutta la forza, e amare il prossimo come se stessi, i due comandamenti che Gesù ha unito, stabilendo come verifica dell’amore verso Dio, che non si vede, quello verso il prossimo che abbiamo davanti ai nostri occhi, perché: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Ma come, concretamente, si vive questo amare il prossimo come se stessi? Lasciamocelo illustrare (come ha fatto papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti) dalla parabola del Samaritano, per capire cosa ha fatto nel suo viaggio da Gerusalemme a Gerico per essere definito buono.
C’è una persona caduta nelle mani dei briganti - non meno pericolosi di quelli della parabola possono essere: malattia, povertà, decisioni sbagliate, incomprensioni, fallimenti… - il samaritano vede e non passa oltre, non cede all’impulso di non immischiarsi. Il primo passo dell’amare il prossimo come se stessi è vedere e non passare oltre, infatti, al posto del ferito, avremmo sperato, pregato, gridato affinché qualcuno ci avesse visto e si fosse fermato. Vedere e non passare oltre, mai. Anche nei confronti di feriti da “briganti” come la guerra, come la fame, come lo sfruttamento… contro i quali sembra non poter fare niente, mentre qualcosa si può fare sempre, magari interessarsi e pregare. Chiudere gli occhi a queste situazioni lontane può portare a non vedere più quelle vicine.
Il samaritano ha compassione, che non è commiserazione e rammarico: “Poverino, come ti hanno ridotto”, “Dove siamo arrivati?”…, ma identificarsi con lui, facendosi vicino. «Gli si fece vicino» (Lc 10,34). Un gesto straordinario che cura più di qualsiasi gesto o parola di consolazione. Scrive papa Francesco: «Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è quella del samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti, oppure di coloro che passano accanto senza avere compassione» (Fratelli tutti 67).
Uno dei motivi che rende difficile o annulla il comandamento dell’amare il prossimo come se stessi è l’abitudine (e la scappatoia) a pensare che qualcun altro deve intervenire. Sarà il governo, sarà il comune, sarà la protezione civile, sarà la Caritas, sarà la ASL… Chiunque sia, tocca a lui. Il samaritano, invece, ci mette del suo: le fasce, l’olio, il vino, la cavalcatura. Comunque sia tocca anche a noi.
Il “buon” (adesso possiamo chiamarlo così) samaritano si preoccupa che il problema del malcapitato sia risolto: «Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”» (Lc 10,35). È l’ultimo passo, il più difficile, dell’amore del prossimo perché richiede non interventi “quando capita”, ma l’impegno a risolvere i problemi del “ferito”. I “due denari” sono quello che papa Francesco chiama la “carità politica”: «È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica» (F165).
Quel “politico”, buon samaritano, possiamo essere sempre un po’ anche noi.